Problemi alla circolazione
di Marco Bertorello- da Il Manifesto del 11/10/2013– La fine della crisi è cosa piuttosto incerta, meno dovrebbe esserlo la fine delle tensioni sui mercati finanziari. Ma a ben guardare anche qui i conti non tornano del tutto. In Italia si parla di come acchiappare la presunta ripresa globale e si finisce per scoprire quanto persino il sistema finanziario sia ancora instabile, a partire proprio dal comparto del credito. Quest’ultimo appare come uno dei crocevia decisivi per poter raggiungere la fine del tunnel, a dimostrazione della compenetrazione tra sfera finanziaria e dell’economia reale. Ignazio Visco descrive una situazione in via di peggioramento: nel secondo trimestre di quest’anno il tasso annuo di ingresso in sofferenza è salito al 2.9%. A metà del 2013 le partite deteriorate hanno raggiunto i 300 miliardi, finendo per incidere sul totale dei prestiti per il 14.7%. Vero è che i criteri di definizione del deterioramento in Italia sono più rigidi che altrove, ma resta il dato sulle tendenze di fondo e sulle cifre da capogiro coinvolte. Si è affermato un circolo vizioso tra crisi economica e finanziaria, che si alimentano vicendevolmente e di cui il sistema bancario rappresenta il baricentro. Il problema dunque non è stato risolto dalla liquidità messa in circolo con ogni mezzo, il tassello mancante risulta essere invece il capitale. Oggi sembrerebbe che Banca d’Italia chieda alle banche di ridurre l’impegno sui titoli di Stato per sostenere imprese e privati, ma in realtà Visco spiega come tale spostamento possa avvenire solo a ripresa in corso. Un bel dilemma. Uno studio di Intesa Sanpaolo sostiene che dal 2000 al 2012 il credito alle aziende sia aumentato del 100%, ma nel medesimo arco di tempo fatturato e investimenti per le imprese sono cresciuti solo del 10% e la produzione è calata addirittura del 20. Le banche dunque hanno alimentato un sistema che aumentava i debiti e non la produzione. Il FMI parla di un eccesso di debito delle imprese, soprattutto medio-piccole.
Romano Prodi, in un recente intervento, ha definito il credito come la «circolazione sanguigna del nostro corpo economico» e ha avanzato un’ipotesi di bad bank in cui convogliare i debiti cattivi. Un’iniziativa complessa che dovrebbe coinvolgere l’intero sistema nazionale, dalla Banca d’Italia alla Cassa depositi e prestiti, con capitali privati affiancati da garanzie pubbliche. Il presidente dell’Associazione Bancaria Italiana Antonio Patuelli a luglio ha sostenuto che i margini nel settore sono «ridotti all’osso», tra i più bassi di tutta l’operatività commerciale. Sempre Pattuelli a settembre ha avanzato la proposta di una revisione nel trattamento fiscale delle perdite sui crediti, riducendo per le banche i tempi di deducibilità dai 18 anni attuali a un anno soltanto. In quell’intervento faceva poi riferimento all’«assoluta necessità di privatizzare tutto quello che è privatizzabile, soprattutto a livello locale e nell’immobiliare». Insomma la logica largamente condivisa che sottende questa bizzarra idea di coesione sociale è che a farsi carico dei problemi di un settore ritenuto centrale sia la collettività, al prezzo da un lato di dismissioni del settore pubblico e dall’altro di investimenti sempre pubblici. Il contributo dei privati, come ci dimostra il caso Monte dei Paschi, consisterebbe nel ridurre i costi attraverso minori occupati e minori servizi.
Forse è tempo di immaginare che se la «circolazione sanguigna» necessita di denaro pubblico sia non per privatizzare ulteriormente i guadagni e socializzare le perdite, ma per creare un polo pubblico nel credito che possa svolgere funzioni dirette e di regia per l’intero comparto. Se si intende dare salute a un corpo in sofferenza, dopo decenni di farmaci a base di privatizzazioni è bene provare a cambiare medici e meglio ancora passare alla medicina alternativa.