Le ragioni della nascita dell’economia del debito sono da ricercare nelle dinamiche economico-sociali affermatesi all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, quando si conclude il periodo dei “Trenta gloriosi”, ovvero il trentennio di crescita dell’economia, iniziato dopo la seconda guerra mondiale. L’elevata inflazione, la progressiva crescita dei salari e l’enorme aumento della produzione, con una tendenziale saturazione dei mercati, produssero in quei decenni una significativa erosione dei profitti.
Nasce qui il durissimo scontro tra capitale e lavoro degli anni’ 80, conclusosi con la vittoria del primo e il progressivo affermarsi della dottrina liberista. La sconfitta politica del lavoro comportò un progressivo arretramento dello Stato nell’intervento socio-economico, l’affermarsi delle politiche di privatizzazione e lo smantellamento delle tutele dello stato sociale.
Sul versante monetario la necessità del controllo dell’inflazione comportò un rigido controllo nell’offerta di moneta, facendo impennare i tassi d’interesse (e il conseguente debito pubblico) e la progressiva liberalizzazione e privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari.
Il tutto avvenne in un contesto di rilevantissime innovazioni tecnologiche, soprattutto nel campo dell’informatica, della comunicazione e dei trasporti, che avviò una progressiva globalizzazione del sistema economico-produttivo, sino ad allora saldamente ancorato all’interno dei confini statuali.
Sull’onda degli insediamenti del governo Thatcher in Gran Bretagna e del governo Reagan negli Usa, si afferma la favola liberista che, più o meno, suonava così: “Facciamo dell’intero pianeta un unico grande mercato, liberalizziamo i mercati finanziari e diamo piena libertà di movimento ai capitali; togliamo loro ‘lacci e lacciuoli’, legati a concezioni obsolete e sconfitte dalla storia, eliminiamo tutti i vincoli sociali e ambientali, e sarà il libero dispiegarsi del mercato ad autoregolare la società, producendo un enorme ricchezza che, se anche non ridurrà le diseguaglianze sociali, porterà a cascata benessere per tutti”.
La conclusione di quella favola è stata ben diversa perché, pur essendo stata prodotta un’enorme ricchezza, non vi è stata alcuna redistribuzione sociale, al punto che le diseguaglianze nel pianeta non sono mai state così ampie nella storia dell’umanità.
Di conseguenza, già alla fine degli anni ’70, il modello si è trovato immerso in una crisi da “sovrapproduzione e mancata allocazione” su nuovi mercati; ovvero, si è dovuto confrontare con una stragrande maggioranza della popolazione mondiale talmente impoverita da ritrovarsi senza alcun potere d’acquisto, e con una fascia minoritaria con capacità d’acquisto, ma che in breve tempo aveva comprato e consumato quanto era nelle proprie possibilità.
E’ stato a questo punto, e per rispondere esattamente a questo impasse, che il modello capitalistico ha modificato il proprio agire, trasferendo enormi risorse direttamente sui mercati finanziari, ovviando alla difficoltà di continuare ad ottenere profitti scambiando merci con la ricerca di profitti semplicemente scambiando denaro.
La contrazione salariale, la riduzione dei redditi e la diminuzione degli investimenti dovevano infatti essere sostituiti da nuovi meccanismi che favorissero consumi e produzioni.
In questo quadro si afferma l’economia del debito, che diventa il vero motore economico degli ultimi decenni. In altre parole si persegue la crescita con mezzi non convenzionali e si avvia un imponente e crescente processo di indebitamento dei consumatori e delle imprese in modo da garantire i consumi anche in una situazione di drastica contrazione dei redditi e dei salari.
La finanziarizzazione diventa l’impalcatura della nuova economia a debito.
La prima tappa del processo di finanziarizzazione dell’economia va fatta risalire alla fine della convertibilità del dollaro in oro, decisa dall’allora Presidente Usa, Richard Nixon, il 15 agosto 1971.
Questo passaggio segna la fine degli accordi di Bretton Woods, il sistema monetario globale siglato nel 1944 nell’omonima cittadina americana dagli stati vincitori della II guerra mondiale.
Bretton Woods era stato pensato per arginare e prevenire le crisi sistemiche (come quella del ’29) e prevedeva un sistema di cambi valutari fissi tutti riferiti al dollaro. Le banche centrali di ciascun paese erano tenute ad intervenire per mantenere le parità stabilite. Stabilizzare i cambi significava impedire movimenti eccessivi di capitali, in sostanza arginare la speculazione ed evitare gli eccessi. Oltre ai cambi fissi, Bretton Woods prevedeva la convertibilità dollaro/oro. La convertibilità dollaro/oro impediva agli Stati Uniti e ad ogni paese di creare moneta a proprio piacimento, poiché per farlo dovevano possedere oro in proporzione alla nuova moneta emessa.
Per finanziare la guerra del Vietnam, gli americani utilizzarono 12 mila tonnellate d’oro con grave rischio per le riserve auree. Fu così che Nixon decise di abbandonare la corrispondenza dollaro/oro e di passare direttamente a stampare moneta allo scopo di finanziare la guerra in Indocina.
Da quel momento, il sistema valutario, da organizzato e “sicuro”, si è trasformato in un mondo senza certezze.
Un secondo passaggio è costituito dalla progressiva deregolamentazione dei movimenti di capitale, attraverso la liberalizzazione dei mercati finanziari e, grazie alle nuove tecnologie digitali, alla massificazione degli investimenti in Borsa, con la liberalizzazione delle commissioni. E’ un processo che corre parallelo in Usa e in Europa e attraversa tutti gli anni 70 e 80 del secolo scorso.
In Europa l’obiettivo della liberalizzazione incondizionata ed effettiva delle operazioni su capitali connesse al corretto funzionamento del mercato e l’integrazione dei mercati nazionali di titoli finanziari fu fissato dalla Direttiva n. 566/1986, poi resa assoluta -ovvero non più ancorata al finanziamento del mercato comune- dal Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del 1992.
Un terzo passaggio avviene nell’ottobre 1979, quando l’allora Presidente della Federal Reserve, Paul Volker, mise in atto una politica monetarista di brusco apprezzamento del dollaro con l’impennata dei tassi di interesse e conseguenze immediate e durature sui debiti pubblici e privati, aumentando la dipendenza dai mercati borsistici delle possibilità di finanziamento.
La progressiva privatizzazione dei sistemi bancari negli anni ’90 (in Italia si è passati dal 74,5% del controllo pubblico sulle banche nel 1990 all’attuale zero assoluto) e l’ingegneria finanziaria dell’ultimo quindicennio costituiscono gli ultimi tasselli del processo di finanziarizzazione.
I processi di finanziarizzazione dell’economia sono dunque serviti a posticipare di alcuni decenni la crisi del modello capitalistico, consentendo per tutto questo tempo profitti di inimmaginabili proporzioni, non riuscendo tuttavia a farla uscire da quella che a tutti gli effetti appare una crisi sistemica.
L’enorme massa di denaro accumulata sui mercati finanziari va infatti, almeno in parte reinvestita in mercati “reali”, sia per evitare il circolo vizioso della continua esplosione di bolle finanziarie sia per riaprire un nuovo ciclo di accumulazione finanziaria.
Ma qui il modello si ritrova con l’identico problema che già gli aveva procurato il primo impasse, mettendo in crisi la favola liberista: la parte depredata e impoverita del pianeta continua a non poter
comprare alcunché, mentre la parte dotata di potere d’acquisto ha in buona sostanza già comprato tutto l’acquistabile. Occorre dunque inventare nuovi mercati per questa fascia di popolazione.
Cosa si può vendere a chi ha già acquistato tutti i beni possibili? L’unica possibilità consiste nel mettere in discussione i diritti e i beni comuni per aprire nuovi terreni di valorizzazione per gli interessi finanziari.
L’attacco ai diritti e ai beni comuni è dunque una imprescindibile necessità per il modello capitalistico per uscire dalla crisi con un nuovo ciclo di accumulazione finanziaria.
Ma per poterlo portare fino in fondo, serve uno shock.
Nasce da questa necessità la costruzione ideologica della trappola del debito, utilizzata come shock per poter far accettare con rassegnazione la nuova fase di spoliazione di diritti, beni comuni e democrazia. Di fatto, abbandonata ogni velleità di convincere le popolazioni della bontà della favola liberista, si è passati, grazie allo shock del debito pubblico, a spaventarle per otten
E a coloro che hanno smesso di credere al “privato è bello” si è semplicemente risposto che “tuttavia, è obbligatorio e ineluttabile”.