Una massa monetaria a piccole dosi

rotolodi Marco Bertorello – Il Manifesto del 21/06/13

Il pensiero economico dominante crede nei liberi mercati, ma questi si mostrano meno liberi di quanto li descriva la teoria. In questo periodo appare chiaramente come siano paradossali l’intreccio e la reciproca dipendenza tra economia e finanziarizzazione. Dopo un periodo all’insegna dell’espansione della base monetaria su scala internazionale oggi tale operazione comincia a dare segni di affanno.

Non che sia già cambiato l’atteggiamento generale, anzi il Giappone ad aprile ha messo in campo un imponente e duraturo progetto per la creazione di moneta, ma si comincia a ipotizzare una riduzione delle dosi. Tale impostazione riguarderebbe principalmente la Fed, la quale immette nel sistema qualcosa come 85 miliardi di dollari al mese. Due settimane fa però, mentre negli Usa si parlava di reindustrializzazione e rimpatrio degli investimenti, l’annuncio che l’Indice Manufatturiero americano era diminuito oltre le attese ha prodotto una crescita della Borsa, in quanto per gli operatori il dato contribuirebbe ad allontanare il termine delle politiche di quantitative easing. Nei giorni seguenti è iniziata una fase di cosiddetta instabilità e volatilità dei mercati, dovuta a due motivi principali. Primo, il timore che la Fed si stia fattivamente apprestando all’abbandono della fase monetaria espansiva, attraverso una riduzione dell’acquisto di titoli americani. Secondo, il mancato rinforzo delle scelte della Boj, dato che è stata disattesa l’estensione da un uno a tre anni dei prestiti agevolati al tasso fisso dello 0.1% e confermata la politica già ultra-espansiva inaugurata recentemente.

Ma cosa sta accadendo? Le economie più direttamente coinvolte in questo tipo di politiche monetarie vedono migliorare il proprio contesto, gli Usa crescono a tassi del 2.5% del Pil, mentre per il Giappone si profila persino un +4% su base annua, ma tali risultati non sono giudicati sufficienti, o meglio non vengono interpretati come il consolidamento della prima e terza economia del globo, cioè questa crescita non consente di ritenere i meccanismi di mercato ripartiti e autosufficienti. Come se vi fosse la comprensione che l’immensa quantità di moneta immessa nell’economia finanziaria, e in qualche misura persino in quella reale, avesse dopato il consueto funzionamento di entrambi i settori. L’eventualità di un rientro dal quantitative easing è considerata prematura e dunque una vera e propria minaccia al consolidamento della ripresa.

La crescita in atto è interpretata unicamente come la risultante delle politiche monetarie adottate. La massa monetaria immessa con varie forme da tutte le banche centrali, compresa la Bce, è considerata talmente poco risolutiva che quando se ne cominciano a vedere i benefici effetti sull’economia manda nuovamente in difficoltà i mercati finanziari. Come se questa politica espansiva fosse ritenuta ormai fisiologica piuttosto che eccezionale. Tale tendenza si afferma non tanto per una deprecabile divaricazione tra finanza ed economia reale, quanto perché la prima non crede in un recupero di autonomia della seconda tale da far ripartire il sistema nel suo complesso. La crisi dei debiti privati si è riversata su quelli pubblici e la medicina di produrre altro debito, come è in sostanza lo stampar moneta, diventa una prassi che crea dipendenza nel sistema stesso, escludendo una sua graduale riduzione. Un dilemma che pone interrogativi sia sul versante della teoria liberista sia su quello di orientamento keynesiano. Il livello di indebitamento pubblico e privato raggiunto su scala globale ha talmente incancrenito il contesto che non bastano le tradizionali ricette per farvi fronte.