Cambiamento climatico e trappola del debito

di Marco Bersani

Nonostante l’evidenza quotidiana, le ricadute ambientali legate al cambiamento climatico e le ricadute legate alla trappola del debito continuano ad essere considerate separatamente, come temi specifici e raramente interconnessi.

Eppure, basterebbe leggere il report “Don’t owe, shouldn’t pay” pubblicato dalla “Jubilee Debt Campaign” in occasione della Cop24 del dicembre scorso a Katowice, per rendersi conto dei nessi.Focus della ricerca è la situazione in cui si trovano 29 Paesi che rientrano sotto la categoria di Small Island Developing States.

Sono piccoli Stati insulari (Grenada, Haiti, Dominica, arcipelago di Vanatu etc.) che contribuiscono in maniera impercettibile ai cambiamenti climatici sotto forma di emissioni di anidride carbonica (0,2%), ma che già oggi, e ancor più in futuro, ne pagano duramente le conseguenze, sia in termini di danni al territorio e alle infrastrutture, sia come impatto sull’economia locale e sulla situazione finanziaria.

Sono Paesi già in situazione di indebitamento finanziario, costretti a contrarre ulteriori debiti per far fronte ai danni provocati da uragani, tempeste tropicali ed esondazioni. “I disastri naturali incidono negativamente sul prodotto interno lordo e aumentano il debito pubblico – si legge nel report di Jubilee Debt Campaign -. Inoltre peggiorano la bilancia commerciale e rendono i Paesi maggiormente dipendenti dal debito estero”.

La ricerca prende in considerazione 14 eventi climatici che hanno causato danni stimati superiori al 10% del prodotto interno lordo nei rispettivi Paesi. Di questi, 13 sono stati registrati in Paesi che rientrano nella categoria di Small Island Developing States.

In nove casi, a due anni di distanza dall’evento, il debito pubblico era aumentato in maniera considerevole. Il Belize – colpito da due devastanti tempeste nel 2000 e nel 2001- ha visto il proprio debito pubblico passare dal 47% del Pil (nel 1999) al 96% nel 2003. A Grenada, dopo il passaggio dell’uragano Ivan il debito pubblico è passato dall’80% al 96% del Pil. Nell’arcipelago di Vanuatu, colpito nel 2015 dal ciclone Pam: il debito pubblico è passato dal 21% del prodotto interno lordo al 39%, appena due anni dopo.

Sono dati confermati da un altro studio “Climate Change and the Cost of Capital in Developing Countries (UN Environment, 2018)”, i cui obiettivi – va precisato – sono tuttavia ancorati alla categoria dello “sviluppo sostenibile”, ovvero ad inseguire la favola del coniugare mercato e difesa dell’ambiente.

Lo studio, commissionato dall’United Nation environment programme (Unep) all’Imperial College Business School e alla School of Oriental and African Studies (SOAS) dell’università di Londra, mette in diretta connessione i danni ambientali prodotti dai cambiamenti climatici con l’aumento del debito pubblico dei paesi coinvolti e dimostra come, negli ultimi dieci anni, un campione di Paesi in via di sviluppo ha dovuto pagare 40 miliardi di dollari aggiuntivi in pagamenti di interessi sul debito pubblico.

Il medesimo studio stima che questi costi aggiuntivi per gli interessi sul debito pubblico aumenteranno di circa 160 miliardi di dollari nel prossimo decennio mettendo a serio rischio le economie di molti Paesi poveri.

Per capire di cosa si parla, se questa somma fosse destinata all’adattamento climatico, con 62 miliardi si potrebbero rimboschire 1.291.666 km2 di alberi (1/5 della foresta pluviale amazzonica) o costruire barriere costiere lungo 9.538 km, quanto l’intera costa del Bangladesh, Barbados, Cambogia, Fiji, Haiti, Honduras, Sri Lanka e Vietnam.

Ma che i costi ambientali del cambiamento climatico si scarichino, oltre che sulle vite delle persone, anche sui debiti pubblici è una certezza ad ogni latitudine del pianeta.

Nell’ultimo decennio, le condizioni meteorologiche estreme e l’impatto sulla salute dei combustibili fossili sono costati all’economia americana almeno 240 miliardi di dollari l’anno. Questo costo esploderà del 50% nel prossimo decennio. Entro il 2030, la perdita di produttività causata da un mondo più caldo potrebbe costare all’economia globale 2 trilioni di dollari.

E, per rimanere in Italia, secondo gli studi del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), se parliamo di percentuali di Pil perso ogni anno, si stima che in Italia il cambiamento climatico sia responsabile di un 10% di Pil in meno, la stessa cifra del declino economico dovuto alla crisi economico-finanziaria del 2008.

Da qualunque postazione la si osservi, la connessione tra cambiamento climatico e debito pubblico appare evidente. Ed è altrettanto evidente come, senza una radicale inversione di rotta, le politiche di adattamento climatico, associate alla trappola, attraverso la quale il debito pubblico viene utilizzato per mettere sul mercato tutto ciò che primo ne era escluso, rischiano di essere il nuovo business delle élite finanziarie a detrimento della vita e della sua qualità per la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta.

Ma perché l’inversione di rotta sia reale, occorre riprendere le parole di un recente articolo di Naomi Klein: “Non c’è nulla di indispensabile per cui gli esseri umani debbano vivere sotto il capitalismo; noi umani siamo in grado di organizzarci in ordini sociali molteplici e differenti, incluse anche società con un orizzonte temporale molto più esteso e un maggiore rispetto per i sistemi di sostentamento alla vita e alla natura. Infatti, gli esseri umani hanno vissuto in questo modo per la maggior parte della loro storia e molte culture indigene mantengono ancora in vita cosmologie geocentriche. Il capitalismo è un piccolo contrattempo nella storia collettiva della nostra specie.”

Il cambiamento climatico non ci sta facendo perdere la Terra, è la Terra che si sta riscaldando così tanto e così in fretta da rischiare di perdere la gran parte di noi. Tocca dunque a noi metterci in cammino.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 38 di Gennaio – Febbraio 2019. “Il cambiamento del clima, il clima del cambiamento

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