Lo Stato salverà il capitalismo italiano?

di Marco Bertorello e Danilo Corradi da Il Manifesto del 9 maggio 2020

Trent’anni dopo l’avvio dei processi di privatizzazione in Italia si rileva come questi abbiano coinciso con un crescente disallineamento dai principali parametri economici in relazione all’Europa. Dal tasso di crescita del Pil a quello sulla produttività, passando per gli investimenti, l’Italia ricopre ormai stabilmente le ultime posizioni a livello continentale. Il rapporto Einaudi dello scorso anno sottolineava come la produttività sia stata negativa nei primi dieci anni del secolo e parlava di «sciopero degli investimenti» a partire dal 2000. Ecco allora come l’esplosione dell’emergenza sanitaria ed economica e la conseguente necessità di inedite quantità di risorse pubbliche animino un curioso dibattito sul ruolo dello Stato in economia. Finanziatore o protagonista del mercato? A favore della prima sembrano esserci una parte di governo e opposizione, Confindustria trainata dal nuovo presidente e tanta parte di quella piccola e media industria che teme veder riversata la liquidità sul versante pubblico a scapito di quello privato. Dall’altra sembrano esserci rappresentanti di governo, ma anche di opposizione, e una parte minoritaria del mondo imprenditoriale, timorosi che l’iniziativa privata non sia autosufficiente anche se finanziariamente sostenuta. Un confronto trasversale che dà conto delle difficoltà del momento. A tutt’oggi sembra prevalere l’idea di un intervento pubblico come mero facilitatore del mercato, funzionale a salvarlo, magari con risorse a fondo perduto o stampando moneta. I toni diventano persino esilaranti quando si evoca il pericolo di una«sovietizzazione» dell’industria, a causa di possibili rappresentanti dello Stato nei cda, omettendo che così è nell’attuale modello tedesco. Sulle pagine de Il Foglio Renato Brunetta considera il finanziamento dello Stato un «indennizzo per risarcire» le aziende costrette a chiudere per la salute di tutti. Un approccio che confina il blocco alle sole imprese (ma chi risarcisce gli studenti o i disoccupati ad esempio?). Per Brunetta intervenire con risorse pubbliche deve solo favorire un ritorno a operare «secondo una logica di mercato». Rimuovendo il fatto che il mercato da anni sia puntellato da politiche monetarie espansive, le quali, dopo una breve parentesi, ben prima della crisi sanitaria, erano nuovamente ripartite. Favorevoli a un intervento pubblico a più ampio raggio sono Romano Prodi, che guidò la privatizzazione dell’Iri e che ora chiede «un piano dello Stato per far ripartire le imprese», e persino il ministro dell’economia, che però tiene a rassicurare che l’intervento nel capitale non significa entrare nella gestione. Infine diversi articolisul Sole 24 Ore, come quello di Mariana Mazzucato, chiedono un intervento statale attraverso investimenti che forniscano «una direzionalità strategica a livello sistemico» e per recuperare una missione pubblica, «una intelligente e consapevole logica programmatrice». Emerge, sebbene in dosi differenti, il legittimo sospetto che l’impresa privata italiana non sia stata e non sarà capace di reggere le future sfide. Un sospetto che ha una lunga storia nell’economia mista ove la sfera pubblica promosse lungamente lo sviluppo industriale italiano, qualcosa di più di una semplice complementarità. Il suo venir meno, ripetiamo, coincise con l’affermarsi del disallineamento dall’Europa. Da qui a rimpiangere i tempi che furono ce ne passa. Un nuovo protagonismo pubblico non potrebbe non fare i conti con i limiti emersi: il rimanere schiacciato tra l’inseguire una logica di mercato e la spinta al clientelismo e alla corruzione imposta dal sistema politico. Sarebbe necessario immaginare nuove forme di concentrazione, gestione e controllo, un’inedita funzione pubblica dovrebbe esser coniugata con la sperimentazione di una nuova economia. La paura della sovietizzazione o la nostalgia per l’Iri rischiano di essere espedienti retorici, ma il ritmo della crisi rende sempre più urgente una nuova prospettiva.