Alleviare il macigno dei debiti per i paesi in via di sviluppo

Andrea Goldstein

I danni che Covid-19 sta provocando sono molteplici e particolarmente drammatici nei Paesi in via di sviluppo. Difficile essere precisi con le previsioni, ma non c’è dubbio che in termini di crescita del Pil, di riduzione della povertà, di miglioramento degli indici di benessere, il 2020 si chiuderà con un bilancio pesantissimo.

Di fronte alla pandemia crescono i bisogni e quindi sarebbe quanto mai necessario avere “spazio fiscale” per manovre anti-cicliche, ma le casse pubbliche nei Paesi poveri sono notoriamente vuote. La capacità di mobilitare le risorse nazionali è modesta – e oltretutto in questo annus horribilis sono pure crollati i corsi delle materie prime che costituiscono il grosso dei ricavi dell’erario – mentre l’evasione fiscale resta altissima e la fuga di capitali tende ad accentuarsi in periodi di incertezza.

Si tratta per il momento innanzitutto di una crisi economica che può presto diventare anche umanitaria. Sono più di 100 milioni nel mondo gli individui in situazione di forte insicurezza alimentare, tra cui milioni di bambini, e anche se a prima vista il loro numero sta aumentando di poco rispetto al 2019 (meno del 5%), la situazione si aggrava in Paesi alle prese con conflitti interni ed esterni come Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Sud Sudan e Burkina Faso. Di fronte alla recessione aumentano anche le pressioni ad emigrare, scelta dolorosa e spesso mortale.

Non è ovviamente la prima volta che il Sud del mondo si trova a fronteggiare una congiuntura sfavorevole, e in passato il gap è stato colmato da risorse esterne, come l’aiuto pubblico allo sviluppo, gli investimenti diretti esteri, le rimesse e l’indebitamento. Questa volta però tutte queste fonti si sono prosciugate, in particolare quelle private (gli investimenti nel primo semestre sono in calo del 28% in Africa e del 25% in America Latina, mentre i trasferimenti dei migranti lo saranno del 14% nel 2020-21), ma anche quelle pubbliche. Per i donatori, è difficile in un momento di crisi trovare risorse per l’aiuto allo sviluppo, tanto più che nell’opinione pubblica prevale il sentimento, certo miope ed egoista, ma forse comprensibile, che vada privilegiato il contrasto alle sofferenze in patria.

Unica, ancorché magra, consolazione è che i creditori ufficiali si sono mossi abbastanza rapidamente.

Il nuovo quadro di ristrutturazione del debito approvato pochi giorni fa dal G20 e dal Club di Parigi (che riunisce 22 Paesi creditori) permetterà di alleggerire il macigno con maggiore trasparenza e con uno sforzo importante anche da parte dei creditori privati. E della Cina, che non appartiene al Club e che in precedenza poteva agire da cavaliere solitario, senza sottoporsi ai principi del consenso, della solidarietà, della comparabilità del trattamento. Per gli Stati debitori sarà più facile e rapido negoziare riduzioni, nuove calendarizzazioni, perfino condoni, a condizione di seguire un programma macroeconomico definito col Fondo monetario. Che stima che 35 Paesi, soprattutto in Africa sub-sahariana, si trovino in situazione di indebitamento eccessivo, o molto prossimi alla soglia, e che pertanto potrebbero presto sospendere i pagamenti.

Il passaggio dalla teoria alla pratica non è però garantito automaticamente, e per questo molti occhi sono puntati in questo momento verso lo Zambia. Il secondo produttore mondiale di rame ha accumulato un grosso debito (11 miliardi di dollari) e ha chiesto di beneficiare della moratoria sul servizio del debito (rimborso del principale e pagamento degli interessi) decisa dal G20 in aprile. Ma mentre i creditori occidentali hanno acconsentito, la Cina, che detiene circa un terzo del debito, sta tuttora chiedendo per sé condizioni più favorevoli. Il governo di Lusaka, stretto tra le richieste dei creditori, in ritardo nel trattare col Fondo e animato da interessi elettorali, sembra avviato verso il default.

Fresca è la memoria dell’Iniziativa per Paesi Poveri Altamente Indebitati (HIPC Initiative) del G7, il condono che ha consentito a molti, soprattutto africani, di liberare fondi per la rinascita, ma anche di accumulare nuovo debito nei confronti di nuovi creditori (i privati e, soprattutto, la Cina). Monitorare la corretta implementazione dell’accordo di venerdì scorso – per evitare l’insolvenza, e quindi l’espulsione dai mercati finanziari globali, di alcuni dei Paesi più martoriati da Covid-19 – sarà una delle tante responsabilità del G20 che l’Italia si accinge a presiedere.