My Unfair Lady – L'eredità di Miss TINA

thatcherdi Marco Bersani

La scomparsa di Margaret Thatcher sta suscitando nei media mainstream le più assurde ricostruzioni sul ruolo dalla stessa ricoperto nella seconda parte del secolo scorso e sull’attualità delle politiche portate avanti col pugno di ferro nella Gran Bretagna di allora.

E se la destra si dispiega comprensibilmente negli osanna alla leader del liberismo spinto, ben più sconcertanti appaiono le prese di posizione a “sinistra”, volte a considerare la Thatcher come un personaggio “complesso”, con luci ed ombre.

Di fatto la Thatcher fu quella che, prima in Europa, importò le teorie monetariste della scuola di Chicago, dopo le prime sperimentazioni concrete avvenute nell’America Latina delle dittature militari.

 

Pubblichiamo al proposito un brano tratto dall’ultimo libro di Marco Bersani

“CatasTroika – Le privatizzazioni che hanno ucciso la società”

Edizioni Alegre : http://www.ilmegafonoquotidiano.it/libri

In uscita nelle librerie : 24 aprile 2013

Per prenotazioni e acquisto copie : marcattac@email.it

 

1. There is no alternative

Se nel Cile di Pinochet il modello neoliberista fu creato con la violenza di Stato e il terrore della repressione, è evidente che tutto ciò non poteva essere immediatamente replicabile in ogni contesto sociale, tantomeno nei paesi industrializzati dell’Occidente. Fu così che la penetrazione delle politiche liberiste in Gran Bretagna avvenne per via pacifica ed elettorale ma che, dato il rivolgimento sociale che si prefiggeva, assunse da subito e nella pratica concreta i caratteri di una “guerra” sociale,  con la necessità di una forte connotazione ideologica. In questo senso, la vittoria dei Tory nel 1979 con l’elezione di Margaret Thatcher a Primo Ministro è stata un evento storico, non solo perché per la prima volta una donna si insediò al numero 10 di Downing Street, ma soprattutto perché, in stretta consonanza con la contemporanea presidenza repubblicana di Ronald Reagan negli Stati Uniti, aprì l’epoca della diffusione su tutto il pianeta del modello neoliberista. La società non esiste. Ci sono solo gli individui e le famiglie fu uno degli slogan con cui mise in pratica il suo mandato, che, con ampio anticipo rispetto agli altri Paesi europei, avviò un vasto processo di liberalizzazione dell’economia e della società, diventando per molti versi un modello di riferimento per le politiche di privatizzazione realizzate successivamente in molti altri Paesi nel mondo. Il governo Thatcher si insediò esplicitamente per imporre una politica volta ad abolire progressivamente ogni intervento dello stato nell’economia e a ridurre drasticamente il ruolo del pubblico nella società, attraverso l’indebolimento dei sindacati e la progressiva privatizzazione di ogni attività economica e sociale..

Questo compito fu affidato a Nicholas Ridley, nominato Ministro dell’Industria e del Commercio, che, sin da subito, si scagliò contro le industrie nazionalizzate, considerate deplorevoli sotto tutti i punti di vista, perché super-sussidiate, non competitive e monopolistiche; e che, altrettanto repentinamente, elaborò una strategia per smantellarle, basata sul fatto che “debbano essere i manager e non i ministri a determinare di quanto deve essere ridotta la forza lavoro alla British Leyland, alle Ferrovie Britanniche o altrove”. Il piano di privatizzazioni della coppia Thatcher/Ridley venne realizzato con sistematicità, ammantato di parole d’ordine fortemente ideologizzate –T.i.n.a., famoso acronimo di “There is no alternative”- e con l’obiettivo, perseguito attraverso la parcellizzazione azionaria  delle imprese statali, di legare la classe dei piccoli risparmiatori al successo del processo di privatizzazione. Per fidelizzare le classi medie spingendole all’acquisto di azioni, vennero introdotti incentivi, quali l’underpricing (la sottovalutazione del prezzo di vendita rispetto all’effettivo livello di mercato) e la loyalty bouns share (l’offerta a chi detiene le azioni di un’azienda privatizzata di uno sconto per l’acquisto di nuove azioni della medesima azienda). Un altro elemento fondamentale del processo di privatizzazione fu l’utilizzo della golden share, ovvero una quota di controllo del capitale azionario da parte dello Stato, applicato dal governo Thatcher solo per periodi limitati di tempo e con l’unico scopo di proteggere e accompagnare l’azienda neo privatizzata nell’inserimento dentro il mercato.

Quali che fossero le tecniche di vendita e gli incentivi adottati, il drastico piano di privatizzazioni avviato comportò in realtà, dopo una prima ampia diffusione degli azionisti, progressivi processi di concentrazione, dovuti al fatto che buona parte dei piccoli investitori rivendette velocemente le azioni acquistate, consegnandole nelle mani degli investitori istituzionali, che attualmente controllano l’80% di tutte le azioni delle 350 maggiori imprese inglesi (assicurazioni 17%, fondi pensione 16%, Investment Trusts 3%, Unit Trusts 2%), il 33% delle quali sono detenute dagli investitori esteri.

2. Benefici : nessuno ai cittadini, tutti agli uomini della City

Il dato aggregato al 2005 – comprendente quindi sia i 18 anni di governo conservatore, sia quelli di governo del New Labour – mostra come le privatizzazioni inglesi rappresentino da sole il 10% delle operazioni e il 15% degli introiti del totale dell’Europa allargata, nonché il 6% delle vendite mondiali. Una vera e propria “guerra “ alla società che ha visto privatizzate in ordine cronologico : British Petroleum (tre tranche nel 1977 / 1979 / 1983), British Aerospace (1981 / 1985), Cable and Wirelless (1981 / 1983), Association British Ports (1983), Jaguar (1984), British Telecom (1984), Enterprise Oil (1984), Rover (1984), Sealink (1984), British Shipbuilders and Naval Dockyards (1985), Britoil (1985), British Gas (1986), British Airways (1987), Rolls Royce (1987), Royal Ordinance Factories (1987), British Aviation Authority (1987), servizi di distribuzione dell’acqua (1989), servizi di distribuzione dell’elettricità (1990), generazione di elettricità (1991), Trust Ports (1992), industria del carbone (1995), ferrovie (1995-1997).

Una grande abbuffata per i capitali finanziari che, tra gli anni ’80 e ’90,  hanno dato vita ad un formidabile “boom” della Borsa, senza alcun ritorno all’economia reale sotto forma di investimento. “Gli esperti ci parlavano di un cambiamento di natura dell’economia, che saremmo passati da un’economia industriale, che produce beni fisici, ad una fondata sui servizi. Ci dicevano che il ‘boom’ dei servizi finanziari e dell’informatica avrebbe creato un mondo post-industriale. Quel futuro è stato rimandato alla calende greche“.  Così si era espresso già nel 1992 il settimanale The Economist rilevando la devastazione della capacità produttiva avvenuta con le privatizzazioni. Persino il Wall Street Journal, da sempre tifoso della “rivoluzione thatcheriana” dovette ammettere che le privatizzazioni hanno rovinato l’economia. “Fare il bagno: la vendita delle compagnie statali dell’acqua si rivela un disastro” è il titolo di un articolo del 2 ottobre 1995 in cui si legge: “Margaret Thatcher ha cercato di dimostrare la competenza delle imprese private quando nel 1989 ha privatizzato le imprese idriche in Inghilterra e Galles. Sei anni dopo come  stiamo ad efficienza? Chiedetelo alle migliaia di persone che non possono innaffiare le rose. E i prezzi? Chiedetelo ai milioni di utenti che si sono visti raddoppiare le bollette. E la competizione? Non ce n’è, a meno che non vogliate contare la Perrier (..) La gente che in Inghilterra e nel Galles pagava l’equivalente di 150 dollari per l’acqua, oggi ne deve pagare 250, 400, o anche 800“.

Particolarmente interessante da questo punto di vista è lo studio effettuato, in tre anni di permanenza alla London School of Economics, da Massimo Florio, i cui risultati sono raccolti nel paper  “Privatizzazioni e interesse. Il caso britannico”. La ricerca, partendo da alcuni dati macroeconomici di venti anni di privatizzazioni in Gran Bretagna (peso sul Pil delle imprese di proprietà statale sceso dal 9% a meno del 3,5%,  investimenti fissi delle imprese pubbliche scesi dall’11% del totale a meno del 3%; percentuale di forza lavoro occupata nel settore pubblico ridotta dal 7,2% a meno dell’1% ) affronta gli effetti delle privatizzazioni dal punto di vista dei costi-benefici, ponendosi la seguente domanda :  “Quali sono i benefici dei processi di privatizzazione in termini di welfare per gli attori coinvolti nelle dismissioni delle imprese pubbliche?”. Cerca quindi una risposta economica ad una questione che dai suoi fautori viene generalmente posta in termini essenzialmente economici. E i risultati di questa ricerca ci dicono che :

a) i cittadini hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni;

b) le fasce di utenti più povere hanno pagato i prezzi più alti;

c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo Stato ha venduto a prezzi troppo bassi e ha perso entrate;

d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente;

e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari e i consulenti della City.

Ovvero che se benefici, anche consistenti, in termini di maggiore produttività sono stati realizzati in alcune delle imprese privatizzate, essi hanno seguito un ‘trend’ già presente prima della cessione ad investitori privati.

Allo stesso modo, non sembra che i benefici attesi per i consumatori si siano realizzati in modo rilevante:  i prezzi scesi dopo la privatizzazione (elettricità e, in particolare, gas) sembrano seguire un andamento di lungo periodo che inizia durante il periodo della nazionalizzazione; altri prezzi sono aumentati in modo anche considerevole (acqua, autobus, ferrovie) ed in certi settori si sono verificati effetti redistributivi che hanno fatto lievitare i costi per alcune categorie di utenti, tipicamente quelli con un reddito inferiore.

Per quanto riguarda il personale, la cui riduzione è stata drastica, passando, fra il 1979 ed il 1997   da circa 1.320.00 dipendenti a poco meno di 520.000, se è pur vero che il processo è iniziato prima dell’avvio delle privatizzazioni e che, durante le stesse, è in molti casi avvenuto in maniera non così traumatica come ci si potrebbe immaginare, è altrettanto vero che, con le privatizzazioni si è radicalmente modificato il quadro delle relazioni industriali : è aumentata la flessibilità del lavoro e la frammentazione della forza lavoro, sia all’interno delle imprese, ad esempio con più elevati differenziali retributivi, sia attraverso forme di terziarizzazione e di outsourcing, che hanno scomposto un processo produttivo, in precedenza unitario. In generale, è stata avviata una progressiva erosione degli status giuridici particolari che contraddistinguevano molti lavoratori del settore pubblico, in particolare gli addetti delle public utilities. Sono inoltre stati ridotti gli spazi di contrattazione collettiva ed anche di esclusione dalle relazioni industriali, determinando profonde modifiche anche nelle organizzazioni sindacali, che si sono trovate da una parte  a gestire una situazione di generale ristrutturazione ed hanno dovuto trattare con soggetti differenti, dall’altra la scomparsa di aree contrattuali giustificate dalla presenza di una proprietà pubblica e di forme di monopolio.

L’unico gruppo di attori che sembra avere tratto un vantaggio inequivocabile dalle privatizzazioni è quello degli azionisti, ossia di coloro che hanno acquisito le azioni delle imprese cedute dallo stato. In effetti, questi ultimi hanno potuto beneficiare di un apprezzamento notevole dei titoli, molto al di sopra della media del mercato borsistico, dovuto ad un sensibile underpricing delle azioni al momento del collocamento. In sostanza, le imprese statali sono state vendute ad un prezzo inferiore rispetto al loro valore, provocando un indubbio vantaggio per gli azionisti, ma una considerevole perdita netta per lo stato e per i contribuenti, che hanno visto sfumare una fonte di entrate significative e periodiche, a fronte di un’entrata una tantum non adeguata.

In definitiva, secondo lo studio di Massimo Florio, lungi dal rappresentare una riduzione netta di oneri per il bilancio dello stato, utile per liberare risorse produttive, la privatizzazione britannica sembra costituire piuttosto una politica di breve periodo, adeguata per aumentare le entrate straordinarie e ridurre il debito, ma non per massimizzare i flussi delle entrate di lungo periodo. Con un diretto cambio dei soggetti che ne raccolgono i benefici : se prima erano lo stato ed i contribuenti, oggi sono le imprese privatizzate ed i loro azionisti. Come dimostrano i due più grandi fallimenti del thatcherismo : la privatizzazione dell’acqua e delle ferrovie.