Sui salvataggi bancari in Italia e il debito pubblico

di Chiara Filoni e Giulia Heredia

Il presente studio, già pubblicato sulla pagina web della rivista Left, analizza le operazioni di salvataggio pubblico (e non) delle banche italiane dal 2009 ad oggi. A conclusione dello studio vi è proposto un saldo dei salvataggi bancari pubblici effettuati dal 2009 al maggio 2019. Molte sono infatti le discussioni e le considerazioni politiche intorno ai presunti benefici statali dei salvataggi bancari (dal momento che nella maggior parte dei casi si tratta di prestiti con interessi) e una clarificazione rispetto a questo tema ci sembrava pertinente.

Le banche sono all’origine della crisi finanziaria del 2007-2008 che genera ancora oggi i suoi effetti deleteri sulla popolazione europea. La discussione sull’origine e la formazione del debito pubblico italiano anche a partire da questo angolo di analisi è fondamentale al fine di indicare le responsabilità di queste entità nell’odierna crisi.

Contrariamente a quanto ci viene narrato dai media dominanti e dai partiti al potere, non sarebbe stata la spesa pubblica, rimasta per lo più stabile in tutta Europa, la causa principale dell’aumento del debito pubblico in Europa (come altrove). In diversi paesi, il debito pubblico rappresentava, prima della crisi, meno di un sesto dei debiti totali e meno di un quinto dei debiti privati. Dopo il 2007, l’aumento del debito pubblico è stato vertiginoso, come conseguenza della crisi economico-finanziaria e del salvataggio delle banche da parte dei poteri pubblici (bail-out)1.

Questo testo ha l’ambizione di rintracciare i vari interventi pubblici operati in Italia a favore delle banche nel post crisi 2008. La questione non è soltanto quella di aver contratto dei prestiti pubblici per le banche, ma anche di aver sbloccato d’urgenza dei fondi pubblici nel momento in cui si fatica a trovare i soldi per la spesa sociale e gli investimenti pubblici, senza per altro minimamente condizionare quei prestiti a una condotta più etica delle banche.

Questo aspetto è tanto più importante dal momento che l’attuale crisi finanziaria si è originata principalmente dalle banche (e alla recessione economica che vi è succeduta) e le autorità pubbliche sembrano fare tutto il possibile per soddisfare i loro capricci. Non soltanto non è stata rimessa in discussione la logica della massimizzazione a breve termine e del profitto a tutti i costi; ma a pagare il conto di questa crisi sono stati e continuano a essere i cittadini e le cittadine per il tramite delle misure di austerità. In altre parole, le questioni della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite non sono ancora state messe in discussione.

Il prossimo paragrafo si concentrerà sui processi di privatizzazione in Italia avviati a partire dagli anni novanta, con particolare attenzione al settore bancario. Vedremo che le decisioni prese in questo periodo avranno importanti ripercussioni negli anni a venire.

Le riforme bancarie

Il sistema bancario italiano è stato oggetto di profonde trasformazioni a partire dagli anni novanta. Le leggi Amato I, Dini e Ciampi e le direttive dell’Unione europea andavano nella direzione di una privatizzazione e di una liberalizzazione degli istituti pubblici di credito, primi tra tutti Monte dei Paschi, San Paolo e Cariplo e la stessa Banca d’Italia.

Nel 1985 la legislazione italiana ha sancito la natura imprenditoriale dell’attività bancaria con il recepimento della prima direttiva comunitaria di coordinamento bancario (D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350 ). A partire da questo momento, le banche non esercitano più solamente le funzioni di raccolta del risparmio fra il pubblico e l’esercizio del credito nell’interesse pubblico, ma ampliano il loro intervento a ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna.

Nel 1990 la Legge Amato sopprime la distinzione tra banche commerciali e di investimento e trasforma le banche pubbliche in società per azioni (SpA), in conformità con i regolamenti internazionali e in particolar modo con la normativa Basilea I del 1990, che vuole rendere le banche più competitive sui mercati nazionali e internazionali.

La legge Amato è il primo grande passo verso il processo di privatizzazione bancaria in Italia. Prima della riforma infatti, lo Stato gestiva l’80% delle banche in Italia. Con Amato esse verranno suddivise in:

  1. Gli enti bancari (che diventano società per azioni, dette conferitarie), responsabili della gestione dell’attività bancaria; si occupa dei profitti a breve termine della banca
  2. Le Fondazioni (enti conferenti), enti legali di tipo privato, proprietarie della banca e dunque delle azioni a cui vengono trasferite tutte quelle attività non tipiche dell’impresa. Vi fanno spesso parte membri eletti dal comune, dalla provincia o dalla regione e sono responsabili degli investimenti a lungo termine e dell’interesse pubblico. Questa seconda funzione tende a scomparire e a essere rimpiazzata dalla prima.

Se la riforma ha come obiettivo principale quello di ridurre il controllo statale nel settore bancario, in un primo tempo i principi sociali ereditati dalle casse di risparmio vengono salvaguardati e confluiscono nelle Fondazioni.

L’intensificazione del processo di privatizzazione del settore continua però negli anni. Con la Legge Dini del 1994 (Legge 30 luglio 1994, n. 474) viene eliminato il requisito che impone alle Fondazioni di possedere più del 50% delle azioni di una banca e vengono introdotti incentivi fiscali per la vendita delle azioni ad altri enti. Nello stesso tempo il Ministero dell’Economia e delle Finanze continua a incentivare la cessione dei titoli bancari imponendo alle Fondazioni la diversificazione dei propri investimenti2. Nel 1998, con la legge Ciampi (Legge 23 dicembre 1998, n. 461), si limita ulteriormente la libertà delle Fondazioni, riducendo i settori in cui possono essere investiti i profitti ricevuti dalle banche a campi di utilità sociale (cultura, sport, sanità, volontariato, etc) e si arriva al riconoscimento della loro natura giuridica privata.

A questa stagione di riforme segue quella delle fusioni. Tra il 1997 e il 2007 avvengono più di 300 fusioni e acquisizioni che danno forma all’odierna struttura del sistema bancario italiano. Negli stessi anni, le operazioni di fusione e incorporazione rappresentarono il 13,6% del totale attivo delle banche italiane, mentre più di metà del totale degli istituti di credito italiani furono acquistati e 52 banche estere vennero acquistate dalle banche italiane.

Si creano grandi gruppi finanziari che si specializzano in misura crescente in prodotti finanziari. Questo permette loro di controllare fette del mercato italiano sempre più grandi, mentre si riduce il mercato per le medie e piccole banche locali, che rimane legato alle comunità locali. Il numero delle banche diminuisce drasticamente, aumenta invece il numero delle succursali e la concentrazione delle banche sul territorio, introducendo una forte competizione nel sistema bancario italiano.

A fine 2017, agli 11 grandi gruppi bancari significativi era riconducibile il 74 per cento del totale delle attività degli intermediari italiani.

La crisi odierna e i primi salvataggi

La crisi finanziaria iniziata nel 2007-2008 è principalmente una crisi del settore delle banche, delle assicurazioni e di altri istituti di credito. Lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti, successivo alla crisi dei mutui subprime, ha provocato una riduzione importante delle liquidità delle banche e un effetto di recessione generalizzata dell’economia. La lezione dei subprime non è stata però sufficiente a provocare un cambio di rotta nei comportamenti delle banche: l’utilizzazione di derivati3 di tutti i tipi, da parte delle banche anziché diminuire è aumentata, rendendone necessario per alcune di esse il salvataggio. I salvataggi da parte dei poteri pubblici uniti alla recessione economica, agli alti tassi di interesse, alle politiche fiscali regressive portate avanti da molti Stati europei, hanno generato un aumento del debito pubblico senza precedenti, aumento che continua a registrarsi.

In Italia, la recessione in Italia tocca il suo suo apice nel 2011, anno in cui, secondo i dati ISTAT, il paese registra un calo del PIL di 10 punti, un crollo della produzione industriale del 20% e degli investimenti del 25%. La disoccupazione giovanile cresce al 29,1%, con una punta del 44,6% per le giovani donne residenti nel Mezzogiorno4.

A quel tempo si pensava che le banche del nostro paese “se la fossero cavata meglio di altre”: la ragione non risiedeva nella superiore capacità dei nostri istituti di gestire gli affari, ma nel fatto che erano di qualche anno in ritardo rispetto all’ “innovazione finanziaria” delle loro omologhe europee e statunitensi e non avevano ancora avuto il tempo di assimilare i prodotti tossici introdotti altrove. Ben presto le cose cambiano però.

Alla fine del 2009 alcune banche avevano già manifestato problemi di liquidità e la necessità di una ricapitalizzazione. A partire da questo momento, gli interventi pubblici a sostegno e a garanzia della ricapitalizzazione degli istituti creditizi sono stati molteplici. Come dimostra il presente lavoro anche con l’introduzione della procedura di salvataggio interno, detto bail-in o la creazione di fondi privati come Atlante 1 e 2, il coinvolgimento dello Stato non è quasi mai mancato.

Il primo aiuto pubblico è richiesto allo Stato da Monte dei Paschi di Siena nel 2009 in seguito a tre disastrose operazioni finanziarie: “Santorini”, “Alexandria” e l’acquisizione della banca Antonveneta.

L’operazione Santorini, dal nome del derivato utilizzato, permise a Monte dei Paschi di chiudere il bilancio nel 2002 (o meglio il buco di bilancio) con un utile netto di 922 milioni di euro.

Monte dei Paschi vendeva a Deutsche Bank il 4,99% di San Paolo IMI a un prezzo del 35% inferiore a quanto pagato dalla banca senese. Da questa vendita ne derivò una perdita netta di 425 milioni di euro.

L’operazione Santorini di fatti permise a Deutsche Bank di “prelevare” del denaro da MPS quasi a costo zero e a MPS di agire come assicuratore: a ogni diminuzione del valore dei BTP di Monte dei paschi, quest’ultima si impegnava a versare a Deutsche Bank la perdita (con un tasso di interesse vicino allo zero).

Un’operazione simile, “Alexandria” avvenne nel 2005. Alexandria era infatti un Collateralized debt obligation, un prodotto derivato all’apparenza molto redditizio ma estremamente rischioso. Anche in questo caso MPS funge da assicuratore. Monte dei Paschi avrebbe dovuto prestare per 7 anni 400 milioni di euro alla società Alexandria e ricevere a garanzia 400 milioni di euro di titoli Alexandria capaci di generare interessi. Quest’ultima avrebbe poi dovuto rimborsare a MPS 400 milioni di euro con scadenza 20 dicembre 2012, ma non lo fece mai.

Nel 2009 infatti dopo il fallimento di Lehman Brothers, tutta una serie di titoli persero valore. Fu anche il caso di Alexandria che perse il 30% del suo valore, provocando nel bilancio di MPS un buco di 220 milioni di euro.

Nel 2007, Monte dei Paschi acquista Banca Antonveneta. Un ‘operazione il cui prezzo era stato annunciato per 9 miliardi di euro ma che si rivelò ben presto di 18 miliardi di euro.

Monte dei Paschi è dunque il primo istituto di credito a ricorrere all’intervento pubblico. Con il decreto anticrisi (dl.185/2008, convertito in L. 2/2009) il governo Berlusconi inaugura la stagione dei Tremonti Bond (dal nome del Ministro delle finanze dell’epoca, Giulio Tremonti). Trattasi di una tipologia di obbligazioni subordinate ibride, emesse dal Monte dei Paschi e sottoscritte dal Ministero dell’Economia, con l’obiettivo di rafforzare il capitale di MPS e di altri istituti di credito, per un totale di 4,05 miliardi di euro.

Il governo ne approfitta per ricapitalizzare anche altri istituti. I fondi vengono così distribuiti: a Banco Popolare vanno 1,45 miliardi di euro, a Banca Popolare di Milano, 500 milioni di euro, al Credito Valtellinese, 200 milioni di euro e la parte più cospicua, 1, 9 miliardi di euro a Banca Monte dei Paschi di Siena5. Il 14 marzo 2011, Banco Popolare ha rimborsato per intero il prestito di 1.450 milioni con l’aggiunta di 86.44 milioni di euro a titolo di interessi maturati. Nel giugno 2013 anche BPM restituisce i 500 milioni dei Tremonti Bond con l’aggiunta di 42.5 milioni di euro di interessi (corrisposti solo nel 2014, a causa delle perdite subite negli anni successivi al 2010)6.

Per quanto riguarda il rimborso di Credito Valtellinese, è in corso un contenzioso tra la banca e il Ministero dell’Economia e delle Finanze: la prima considera infatti gli interessi non dovuti sulla base di un’interpretazione della normativa applicabile. Il capitale è stato rimborsato nel 2013 non complessivo degli interessi7.

Per quanto concerne invece Monte dei Paschi il rimborso dei Tremonti Bond non arriva subito e una nuova ricapitalizzazione divenne necessaria per poter rimborsare il primo prestito.  Questa avviene nel 2012 quando il CDA di MPS approva il piano industriale 2012-2015 per un ulteriore rafforzamento patrimoniale. Su specifica richiesta di MPS e dopo il via libera di Banca d’Italia, il governo tecnico Monti dà il suo assenso a sostenere ulteriormente la banca, sottoscrivendo nuovi strumenti finanziari per un ammontare di 3,9 miliardi di euro (di cui 2 miliardi computabili al rafforzamento del patrimonio della banca e 1,92 per il rimborso dei Tremonti Bond di cui sopra). Il tutto con la legge 135/2012 e la legge 228/2012 che dà il via al varo dei Monti bond.

Il primo luglio 2014, la banca rimborsa 3 miliardi di euro di obbligazioni. Il restante viene restituito nel 2015, mentre una parte degli interessi viene convertita in azioni considerata la perdita di 5 miliardi di euro con cui la banca chiude il bilancio nel 2014.

E’ utile spendere qualche parola sui Monti e Tremonti bond, poiché essi non sono dei normali prestiti bensì, comme detto, degli strumenti ibridi: da un lato, questi strumenti prevedono il rimborso e il pagamento degli interessi come qualsiasi altro prestito, dall’altro, l’aiuto è erogato per lo più sotto forma di capitale dal momento che non vi è alcuna scadenza per la restituzione. Ciò vuol dire che Monti e i Tremonti bond per di più partecipano (e hanno partecipato) al rischio di impresa al pari delle altre azioni della banca: se quest’ultima subiva delle perdite, il Tesoro condivideva queste perdite con gli altri azionisti. In breve, non solo lo Stato ha accantonato dei soldi pubblici per risolvere i problemi delle banche, ma non ha assunto alcun potere decisionale all’interno banca. In altre parole non ha mai goduto del diritto di voto sulle decisioni prese pur subendone tutte le conseguenze (positive o negative) di queste ultime. Questo ragionamento si applicherà- come vedremo- ai successivi salvataggi bancari.

Lo studio continua l’analisi dei salvataggi bancari descrivendo il salvataggio nel novembre 2015 di quattro piccole e medie banche del centro Italia: Banca delle Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Chieti e Cassa di risparmio di Ferrara per un importo complessivo di 4 miliardi di euro.

Non ci soffermeremo su questi casi, anche se molto interessanti, perché trattasi di salvataggi interni (bail-in, procedura implementata dal governo italiano sin da fine 2015) ad opera di azionari e obbligazionisti della banca.

Per una trattazione più completa del caso rimandiamo allo studio qui pubblicato. Ci limitiamo a dire che come per Monte dei Paschi, le quattro banche avevano in comune una gestione quanto meno allegra e disinvolta del credito: prestiti dati in maniera poco trasparente, spesso a clienti assolutamente non meritevoli, o ad amici degli amici; interventi finanziari troppo rilevanti diretti al settore immobiliare, spesso in zone lontane da quelle di radicamento delle banche. A ciò si aggiunge la miopia (o la complicità?) dei consigli di amministrazione, dei collegi sindacali, dei politici, dei media, che non hanno visto e sentito nulla come spesso accade.

Questa questione è legata a quella dei non-performing loans (NPL)8, una vera spina nel fianco del nostro paese (e non solo!).

A inizio 2016, il livello dei crediti deteriorati nel sistema bancario italiano supera i 360 miliardi di euro, che equivale a circa il 20% dei prestiti totali. Ciò rappresenta pure il triplo di sofferenze della media dei paesi UE. Rispetto al 2014, Intesa passa da un valore di 10,2% al 16,5%, Monte dei Paschi di Siena dal 18% al 34,8%, Banco Popolare dall’11,6% al 27,9%, Veneto Banca dal 12,2% al 29%, UBI dal 7,6% al 17%, Banco Popolare di Vicenza dal 13,7% al 31, 6%, Carige dal 13,2 % al 28, 5% e infine Unicredit dal 10,6 al 24, 9%. Il dato è preoccupante soprattutto per le grandi banche, come Monte dei Paschi, che concentrano nei loro bilanci la più grossa quantità di NPL del territorio nazionale.

In risposta e su iniziativa del governo italiano nel giugno 2016 viene costituito un fondo d’investimento “Fondo Atlante” gestito da una società privata, Quaestio Capital Management. Lo Stato italiano, come gli altri Stati europei che aderiscono alla nuova normativa bancaria del bail-in (vedi il caso delle quattro banche dell’Italia centrale) non può più infatti intervenire formalmente attraverso il finanziamento pubblico in caso di crisi bancaria9. Per aiutare le banche italiane in difficoltà quindi il Fondo deve affrontare due obiettivi : da un lato, garantire le necessarie ricapitalizzazioni e, dall’altro, individuare nei bilanci delle banche i prestiti deteriorati. Al Fondo Atlante partecipano tutte le principali banche italiane e molte compagnie di assicurazione, ma anche Cassa Depositi e Prestiti (CDP), società pubblica all’83% con una quota di 500 milioni di euro, e Poste Vite10 con 260 milioni di euro. Il fondo ha un capitale di 4 miliardi di euro, cifra insufficiente rispetto ai miliardi di sofferenze dei bilanci bancari. Il divario tra i due obiettivi di cui sopra e le risorse stanziate è enorme, tanto più che queste ultime sono state completamente assorbite dalla ricapitalizzazione di due banche venete (Veneto Banca e Popolare di Vicenza). Si costituisce pertanto un nuovo “Fondo Atlante 2”.

Nonostante questi gli aumenti di capitale, le ispezioni effettuate dalla BCE e dalla Banca d’Italia mostrano che le perdite delle due banche sono ancora considerevoli, così come la loro esposizione ai rischi.

Le due banche vengono quindi poste in amministrazione coatta e smembrate in una maxi bad bank, che raccoglie le attività e le passività tossiche, per un valore totale di oltre 20 miliardi di euro di crediti lordi e controllata da commissari liquidatori e una parte “sana”, acquistata da Intesa a un euro simbolico. I prestiti tossici sono stati poi trasferiti ad una società pubblica (S.G.A.), acquistata dallo Stato per 600.000 euro, al fine di liquidare le attività delle due banche.
La ricapitalizzazione pubblica ha avuto luogo nel giugno 2017 (con DL 99/2017). L’intervento dello Stato in questa operazione c’è stato, nonostante la regolamentazione europea, e ha assunto la forma di un esborso di 4,8 miliardi di euro.

Le risorse finanziarie necessarie per salvare le due banche venete provengono dal decreto Gentiloni del 23 dicembre 2016: 20 miliardi di euro, in parte utilizzati anche per il Monte dei Paschi (per un totale di 5,4 miliardi di euro).

Per di più, il fondo Atlante 2, che pure era già intervenuto a favore di Monte dei Paschi, aveva capitalizzato circa 2,5 miliardi di euro di dotazione: 800 milioni di euro da Atlante 1, 450 milioni di SGA, 300 milioni da Intesa Sanpaolo e UniCredit, 500 milioni di CDP, 200 milioni da Poste Vita (ancora una volta i fondi pubblici nascosti in strutture private!) e i restanti 250 milioni di euro da Unipol e Mediobanca11. Tutti questi contributi si sono rivelati insufficienti per gestire i 47 miliardi di euro di NPL12 ! Per non parlare delle altre sofferenze presenti nei bilanci di altre banche: a fine 2015, dei 130 miliardi di crediti esistenti, un terzo erano crediti tossici!

Con il salvataggio di MPS nel 2012 e la conversione degli interessi in azioni, lo Stato aveva già acquisito il 4% del controllo della società. Il salvataggio di MPS nel 2016 consentirà allo Stato italiano di controllare il 68% delle azioni di MPS e diventare così il suo principale azionista.

La situazione del sistema bancario italiano è lungi dall’essere risolta. Si sono succedute nuove crisi, per citare solo l’ultima, quella di Carige, coinvolta in un caso di frode di diverse decine di milioni di euro ed esposta ad una montagna di crediti in sofferenza.

Con un nuovo decreto, denominato Salva Carige, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha concesso un prestito di 1,3 miliardi di euro per il 2019. Ancora una volta, come nelle migliori tradizioni, sono previsti 1050 licenziamenti in base ad accordi individuali di prepensionamento e alla chiusura di 100 filiali che vi vanno a sommare ai 5500 licenziamenti e alla chiusura di 600 agenzie Monte dei Paschi previsti nel piano di ristrutturazione 2017- 2021.

La seguente tabella elenca i diversi salvataggi pubblici bancari dall’inizio della crisi ad oggi.

Saldo salvataggi pubblici (in milioni di euro)

Conclusioni

La tabella precedente riporta il calcolo del saldo dei fondi pubblici utilizzati per il salvataggio di enti creditizi. La crisi bancaria è costata ai contribuenti italiani oltre 13,5 miliardi di euro.

Fra le entrate statali troviamo: gli interessi percepiti dallo Stato italiano sui prestiti concessi alle banche, i rimborsi di tali prestiti e le commissioni pagate dalle banche per l’ottenimento di garanzie statali su alcune obbligazioni bancarie (vedi studio). Tra le uscite i prestiti nelle loro diverse forme.

Nonostante i numerosi interventi a sostegno del sistema bancario in crisi dal 2009, nessun governo (in Italia come d’altronde in Europa) ha mai messo in discussione il processo di privatizzazione del sistema creditizio all’origine dell’attività speculativa delle banche e l’ accesa competizione tra queste per guadagnarsi fette sempre più grandi di mercato.

L’ingresso dello Stato italiano nella partecipazione azionaria del Monte dei Paschi avrebbe potuto essere utilizzato come pretesto per imporre un modello bancario diverso, per esempio orientato verso interesse generale e la prossimità con i cittadini. Questo non sembra essere il percorso che il Monte dei Paschi e le banche più in generale stanno seguendo.

Al contrario, la partecipazione dello Stato in MPS viene percepita come qualcosa di temporaneo e da sostituire quanto prima, nonostante tutte le conseguenze negative che ciò potrebbe avere in termini di finanze pubbliche e di politica di austerità.

A ciò si aggiungono le criticità del nuovo modello di regolamentazione bancaria europea in opera dal 2016: le eccezioni alla regola del salvataggio interno sono talmente numerose che annullano gli effetti della direttiva. Prima tra tutte, la protezione concessa alle banche sistemiche contro il rischio di contagio (si veda il caso del Monte dei Paschi). La logica dietro questa apparente necessità è che le principali banche sono estremamente interconnesse tra di loro (attraverso contratti derivati, finanziamenti e partecipazioni incrociate): se una di esse è in difficoltà, questa potrebbe trascinare con sé le altre. Il problema del “troppo grande per fallire” (troppo grande per fallire) rimane dunque irrisolto.

La nuova regolamentazione europea, sebbene giusta in principio, poiché richiama all’ordine i responsabili della crisi bancaria (e non più i contribuenti dello Stato), prevede pure la contribuzione di altre banche al Fondo interbancario di tutela dei depositi, creando così un rischio di contagio per alcune istituzioni sane che devono sostenere il peso delle perdite altrui. Per di più nel caso italiano, dietro fondi più o meno privati, si nascondono come visto istituzioni con azionariato a maggioranza pubblico come Cassa Depositi e Prestiti e Poste Vita.

A dieci anni dalla crisi, l’OCSE ha lanciato un nuovo avvertimento in materia di aumento del debito pubblico, di crescita economica lenta (nonostante le enormi quantità di liquidità immesse sui mercati finanziari dall’EQ), di elevato utilizzo di derivati e di strumenti speculativi. D’altro canto, la ricetta utilizzata sembra ancora e sempre la stessa: per stimolare l’economia, la finanza deve essere sempre più deregolamentata. Quasi niente è stato fatto per prevenire le situazioni di crisi.

La storia del Monte dei Paschi di Siena, così come quella delle altre banche che hanno beneficiato di salvataggi pubblici e non, mostra come il perseguimento della logica capitalistica basata sui profitti ad ogni costo e le privatizzazioni sia una falsa logica che va abbandonata. Nonostante ciò, negli ultimi trent’anni, il leitmotiv “il settore privato è bello, efficiente e competitivo” ha prevalso su tutte le altre logiche, malgrado gli effetti negativi di questo processo e la confutabilità di questo principio in tutti gli ambiti di applicazione, compreso il settore bancario.

È tempo di mettere in pratica le alternative proposte dai movimenti sociali e dai settori della sinistra radicale: un vero cambiamento in ambito finanziario non può essere realizzato senza una riduzione importante delle dimensioni delle banche, una separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, il divieto della speculazione, dei derivati, del trading ad alta frequenza, del sistema bancario ombra, del segreto bancario, dei paradisi fiscali: queste pratiche sono all’origine della crisi bancaria in Italia (come altrove).

E’ più che mai urgente proporre alternative radicali capaci di rifondare le fondamenta del sistema finanziario, imponendo una vera e propria regolamentazione bancaria, il finanziamento del debito pubblico da parte di una nuova banca centrale (ad esempio a tassi di interesse zero) e la socializzazione delle banche che consentirebbe ai lavoratori, ai sindacati, ai clienti e le associazioni di settore di controllare la gestione del sistema bancario.

Per scaricare l’intero studio cliccare su

Note

1 Toussaint E., Bancocratie, éditions Aden, 2014

2 http://www.circolorefricerche.it/it/le-analisi/2013/02/cosa-abbiamo-imparato-da-siena/le-fondazioni-di-origine-bancaria-e-ventanni-di-riforme-al-sistema-bancario-italiano/

3 I derivati fanno parte della famiglia dei prodotti finanziari che raggruppa principalmente le options, i futures, gli swaps e le loro combinazioni, tutte legate ad altri attivi (azioni, obbligazioni, materie prime, tassi di interesse, indici..) da cui sono inseparabili: Option su un’azione, contratto a termine su un indice ecc. Il loro valore dipende da quello di altri attivi dunque.

4 https://www.istat.it/it/archivio/58055

5  https://www.lettera43.it/it/articoli/economia/2011/03/15/tremonti-bond-alla-cassa/7456/

6 Relazione e Bilancio Consolidato del Gruppo Bipiemme, esecizio 2014, http://www.gruppobpm.it/it-ist/governance/assemblee-soci/assemblea-10-11-apr-2015/content/02/linkItems/02/file/BIL_CONSOLIDATO_CON%20REL%20GESTIONE_SENZA_REL_REVISIONE_.pdf

7 Credito Valtellinese, Comunicato Stampa 4 marzo 2014, http://www.gruppocreval.com/cartellaPDF/parsedPDF/20140304_agg.pdf

8 I prestiti non performanti (in inglese non-performing loans) sono dei crediti la cui riscossione è incerta sia rispetto alla scadenza (generalmente si fa riferimento a 90 giorni dopo la scadenza del contratto) che per ammontare dell’esposizione, perché i soggetti debitori risultano in stato di insolvenza (anche non accertato giudizialmente) o in situazioni equiparabili.

9 http://www.mef.gov.it/focus/sistema_bancario/fondo_atlante.html

10 Cassa Depositi e Prestiti ha storicamente agito come prestatore dei comuni ed è controllata per l’82,77% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, per il 15,93% da Fondazioni bancarie e 1,30% da azioni proprie. Poste Vita è detenuta al 29,2 % dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, al 35% da CDP e per la restante parte da azionisti “flottanti” (una parte normalmente costituita dal mercato).

11 https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-11-19/atlante-2-vara-comitato-investitori-100351.shtml

12 https://www.lavoce.info/archives/42327/atlante-2-i-costi-occulti-di-unoperazione-di-sistema/